Un’economia al servizio della cultura

A cura della redazione di Network Museum

Anche in questa quinta stagione di Network Museum abbiamo deciso di riproporre questa sezione dedicata al rapporto tra musei ed economia, consapevoli, oltre che convinti, che tale binomio debba ulteriormente essere analizzato ed esteso a ulteriori categorie, di cui in questi anni abbiamo avuto modo, attraverso l’attività di ricerca di Infogestione e di confronto di Network Museum, di riconoscere e comprendere. All’economia, che per sua definizione si interessa a come le risorse vengano utilizzate (e distribuite), ci sembra aver fatto un torto abnorme. La si è resa monca di un riferimento, di una componente, di uno studio, forse mai affrontato appieno, e di una risorsa indispensabile (se non vogliamo correre come imbecilli dalla levatrice al becchino): la cultura. Progrediamo nel comprendere i meccanismi dell’universo, i “come”, ma, forse, mai come in questi ultimi decenni, segniamo il passo sui “perché” o, almeno, su quella tensione a cercare di comprendere i motivi di tanta nostra agitazione esistenziale. Abbiamo imparato cose che agli Antichi sarebbero parse più difficili che banchettare con gli dei dell’Olimpo, ora ci areniamo su tali allori (il più delle volte farina del sacco di secoli e genti precedenti) come se “ci bastasse” attorniarci di oggetti, senza comprendere a cosa in realtà ci possano servire. Comunichiamo in molteplici e affascinanti modalità, ma non ci siamo, forse, mai sentiti così isolati o così privi di argomenti, siamo empatici verso cani, gatti ed esseri umani in modo proporzionale alla loro lontananza e alla loro incidenza sul nostro PIL, evitiamo accuratamente, in nome di non si sa cosa, ma certo di un qualcosa di comodo, ogni scelta etica, misurando tutto e sempre sulla ostentazione di opportunità e disponibilità economiche. Ogni riferimento morale condiviso, anche solo ogni tentativo nel ricomporre un sentiero di convivenza da percorrere insieme, è inconsiderabile, a meno che non sia di tendenza, non impegni, sia transitorio e utile a qualcuno. Insomma “ognuno per sé e nessuno per tutti: basta che la borsa non perda e si possa lasciare il cervello in modalità “stand by“. Siamo certi di poter ridurre in tali termini l’economia e lo studio delle risorse? Noi di Network Museum, come tafani socratici, vogliamo continuare a parlarne, consapevoli che anche questo sia il ruolo della cultura e dei musei.
Il primo Ospite del nuovo corso della sezione “Musei ed economia” è Paolo Migliavacca, giornalista e studioso di questioni geopolitiche ed energetiche, argomenti, che invitano a riconsiderare il mondo, e ciò che esso contiene, come di ognuno e di tutti.


Paolo Migliavacca

Paolo Migliavacca
Settanta anni, laureato in Scienze Politiche, giornalista della carta stampata da 40 anni. Per oltre venticinque anni ha lavorato al gruppo “Sole-24 Ore”, dove ha curato le pagine degli Esteri all’edizione cartacea del Lunedì, occupandosi di economia internazionale, in particolare di tematiche geo-politiche ed energetiche. Su questi stessi temi ha anche collaborato a varie altre testate, quali “Mondo Economico”, “il Mondo”, “Espansione”, “Successo” e “Affari Esteri.” Attualmente partecipa alle attività del Centro Studi “Luigi Einaudi” di Torino, dove si occupa di problematiche geo-politiche, militari ed energetiche.



Network Museum – Cos’è la cultura e a cosa serve?

Paolo Migliavacca – La definirei il bagaglio di conoscenze che ogni essere umano accumula nel corso della sua esistenza attraverso lo studio, l’analisi, la riflessione personale e il confronto con gli altri e che gli consente di misurarsi e dialogare con la realtà e la società che lo circonda. Quindi riguarda, in ultima analisi, la convivenza “educata” di ogni individuo nell’ambiente politico-sociale in cui è inserito. Per comprendere appieno il concetto di cultura, ritengo sia indispensabile rifarsi alla nozione greca di “paideia”, che, opportunamente aggiornata, sono convinto resti valida ancora oggi, a 25 secoli dalla sua formulazione. La cultura, a mio parere, deve consistere non in un ammasso nozionistico di sapere (anche se pure esso, in piccola misura, può avere qualche utilità), ma in un insieme di regole e capacità di giudizio per discernere ciò che è utile e ciò che è invece dannoso per la formazione del patrimonio di conoscenze dell’individuo. Questo patrimonio dev’essere sempre diretto, in ultima analisi, a creare e rafforzare la socialità individuale e collettiva. Personalmente, ritengo che due dei momenti più significativi della cultura umana siano stati raggiunti con l’umanesimo e l’illuminismo: il primo perché ha mirato a realizzare le più alte vette del “bello”, il secondo perché ha puntato a diffondere ai quattro angoli delle Terra il bagaglio di saperi accumulati dall’umanità fino a quel tempo. Negli ultimi due secoli, forse a causa della sua inevitabile universalizzazione, ritengo però che il concetto stesso di sapere sia stato posto in crisi dal confronto-scontro tra culture assai distanti tra loro anche geograficamente e dalla contemporanea, crescente difficoltà incontrata dal bagaglio di conoscenze e “visione del mondo” (weltanschauung) messo in campo dall’Occidente, che ha tuttora la pretesa di essere dominante, nell’essere accettato dal resto del mondo.

Network Museum – Cos’è un museo e a cosa serve?

Paolo Migliavacca – Idealmente dovrebbe essere una sorta di “cassaforte” del sapere umano che studia, conserva e trasmette alle generazioni future i beni e i manufatti più significativi di una o più culture: artistici, storici ma anche scientifici e – perché no? – ambientali. L’etimo stesso (luogo sacro alle Muse che, in quanto figlie di Zeus, proteggevano le arti e le scienze) ci dice che il museo da millenni svolge una funzione protettiva delle ricchezze che contiene. Ė evidente però che oggi non basta più una forma “passiva” di salvaguardia, svolta in prevalenza fino alla fine del secolo scorso, ma che occorra anche una forma “attiva” per attrarre “clienti” (visitatori, studiosi) al godimento e alla fruizione delle dotazioni museali, con il fine ultimo di diffondere, attraverso l’arricchimento culturale che procurano, un generale miglioramento di istruzione ed educazione sociale e quindi della vita collettiva. E qui vedo un ruolo decisivo della mano pubblica nel sostenere in ogni forma possibile questo tipo di istituzioni per l’enorme ritorno, materiale e spirituale, che esse procurano alla società.

Network Museum – Che relazione intercorre tra cultura ed economia?

Paolo Migliavacca – Premesso che non c’è sviluppo economico senza sviluppo culturale (ma è altrettanto vero il contrario: dunque i due aspetti si tengono molto), in una parte del pensiero capitalistico moderno è invalso il preconcetto di un’intrinseca superiorità dell’economia sulla cultura, ridotta a orpello inutile e costoso. Ė noto il perentorio giudizio attribuito nel 2010 all’allora ministro italiano dell’Economia Giulio Tremonti, che avrebbe rifiutato le ripetute richieste di fondi del collega Sandro Bondi, titolare del dicastero della Cultura, con uno sprezzante “Con la cultura non si mangia” (frase poi tenacemente smentita negli anni seguenti, dopo che Tremonti si rese conto della generale condanna raccolta). Così come appare frutto dello stesso preconcetto l’analogo giudizio dell’allora presidente americano Barak Obama, che nel 2014 consigliò agli universitari del Wisconsin di studiare economia invece di Storia dell’Arte perché “i guadagni sono superiori”.
In realtà, in un paese come il nostro – che detiene, secondo stime dell’Unesco, oltre i due terzi del patrimonio artistico mondiale e che della cultura in senso lato ha fatto il suo fiore all’occhiello – sarebbe più logico puntare a un’economia che si ponga anche al servizio della cultura. Del resto, non sarebbe certo una novità: per oltre due secoli la parte d’Italia più ricca di opere d’arte e monumenti classici campò grazie ai ricchi visitatori del Nord Europa che la percorrevano nel cosiddetto “grand tour”. Se Francia e Spagna, che vantano un patrimonio artistico assai meno ricco del nostro, risultano i paesi con il più alto afflusso di turisti al mondo (rispettivamente 89 e 84 milioni di visitatori nel 2022, contro appena 65 milioni per l’Italia) con entrate per 61 e 86 miliardi di dollari, i nostri 49 miliardi annui di fatturato potrebbero essere quanto meno raddoppiati con politiche promozionali mirate. Già oggi il settore culturale rappresenta, secondo diverse stime, tra il 5% e il 10% del PIL italiano e dà lavoro a un numero di addetti stimato tra 1,5  e 2 milioni. Dati alla mano, di cultura si può certamente vivere e l’Italia ne è (o meglio, dovrebbe essere) la prova vivente.

Network Museum – L’economia si interessa di come vengono distribuite le risorse. Esiste una economia della cultura? 

Paolo Migliavacca – Allargando il discorso delineato nella risposta precedente, occorre prendere in considerazione comparti dell’economia culturale che di solito sono considerati avulsi da quel contesto, ma che invece ne costituiscono una parte essenziale. Mi riferisco soprattutto allo spettacolo, alla musica, alla cinematografia e all’editoria. Tutti campi in cui l’Italia vanta un patrimonio storicamente di prim’ordine e il cui utilizzo e riproposizione alimenta un’attività economica di grande rilievo, in termini sia di giro d’affari sia di occupazione. Per alcune località, si tratta di attività imprescindibili dal punto di vista della resa economica: penso a Verona (stagione lirica all’Arena), Spoleto (festival dei Due Mondi), alle innumerevoli località minori italiane che organizzano festival cinematografici specializzati, ma anche, all’estero, alle analoghe attività di Bayreuth, Stratford-on-Avon e Turku.

Network Museum – Che rapporto intercorre tra libertà, economia e cultura? 

Paolo Migliavacca – Il concetto di libertà presenta infinite sfaccettature. Se vogliamo rapportarlo all’economia, significa in sostanza libertà d’iniziativa economica. Ma essa – come prevede giustamente la nostra costituzione – va delimitata e controllata affinché non diventi libero arbitrio padronale o comunque di chi detiene le leve del potere economico e possa quindi farne un uso restrittivo e/o ricattatorio. Se invece vogliamo rapportarlo alla cultura, il concetto di libertà diventa pressoché senza limiti, temperato soltanto dalla morale, dalla coscienza personale e dalle normative di legge, poiché l’arte, per definizione tautologica, è e dev’essere libera. Altrimenti non è.

Network Museum – Come è vissuta dalle istituzioni e dal mondo della politica la cultura?

Paolo Migliavacca – Direi piuttosto male, in genere con una certa dose di fastidio. Dal punto di vista delle leve di potere che può mobilitare, la cultura è trattata come una sorta di brutto anatroccolo, più subìta che amata. Com’è facile intuire, si acquisisce più potere e prestigio gestendo risorse sanitarie, lavori pubblici o trasporti che biblioteche e musei. Prova ne sia che l’assessorato alla cultura (o il ministero stesso, a livello governativo centrale), per tradizione ormai consolidata è sempre tra gli ultimi a essere assegnato nella spartizione degli incarichi di sotto-governo e costituisce un contentino che lascia quasi sempre l’amaro in bocca ai beneficiati. A parziale gratificazione di un politico prestato alla cultura, c’è tuttavia la possibilità di raccogliere notorietà con poco sforzo quando l’apertura di una mostra di un pittore celebre o qualche scoperta archeologica rilevante (per fortuna ancora frequenti nel nostro paese) consentono ampia visibilità, dotte interviste, dichiarazioni paludate e assunzione di meriti in altri settori impensabili. Un esempio molto eloquente mi pare la vicenda dei 24 bronzi etrusco-romani rinvenuti nel novembre scorso a San Casciano dei Bagni, nel Senese, dopo anni di scavi e immediatamente visitati dal neo-ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, con grande sovraesposizione mediatica.

Network Museum – Come giudica il sistema di propagazione della cultura (compreso il comparto scolastico formativo) italiano? Cosa accade, a tal proposito, all’estero?

Paolo Migliavacca – Là ove manca una coscienza culturale diffusa (ed è il caso del nostro Paese, almeno per varie zone diffuse un po’ a macchia di leopardo), occorrerebbero campagne sistematiche di promozione e valorizzazione dei beni disponibili. Ciò premesso, mi limito alla situazione scolastica. Anche qui il mio giudizio non è positivo. Per esperienza personale, la scuola – sulla quale, peraltro, mi sento di esprimere un giudizio nel complesso positivo per quanto ha contribuito alla mia formazione generale – non mi ha MAI portato a visitare una mostra o un museo. Le due uniche eccezioni (splendide, peraltro) riguardano il teatro: la riduzione scenica di “Se questo è un uomo”, curata da Primo Levi in persona, nel 1966 e “Processo per magia” di Apuleio nel 1970. Altri tempi, si potrebbe dire. Ma simile è stata l’esperienza di tanti altri amici e conoscenti. Forse oggi le cose cominciano ad andare un po’ meglio (o almeno lo spero) quanto a offerta formativa, ma mi pare che in Italia permanga una forte dicotomia tra scuola e cultura. Su quanto avvenga all’estero non mi pronuncio, avendo troppo poca esperienza in materia. Conservo però alcuni ricordi dei paesi scandinavi, tutti largamente positivi: musei organizzati alla perfezione e molti giovani visitatori in età scolare assai attenti. L’esempio migliore mi pare il museo Vasa di Stoccolma, dove la visita alla nave ammiraglia della flotta svedese – affondata nel 1628, poi recuperata e restaurata negli anni 60 del secolo scorso – diventa l’occasione per una straordinaria immersione multidisciplinare nella civiltà del XVII secolo: storica, sociale, economica. È un po’ il museo perfetto che tutti dovrebbero imitare.

Network Museum – Come immagina la cultura nel futuro? Come penserebbe il futuro dei musei?

Paolo Migliavacca – Nella risposta alla prima domanda traspare già il mio sostanziale pessimismo circa il futuro della cultura. Vedo un aumento esponenziale dell’informazione generale disponibile, ma anche un simmetrico aumento della difficoltà a filtrarla per elaborare una migliore cultura personale proprio a causa di questa overdose di opportunità. Per dirla in estrema sintesi, c’è una sempre maggiore offerta di dati e nozioni, ma un’equivalente e crescente incapacità individuale a gestirli, vuoi perché le capacità culturali individuali appaiono in peggioramento (appiattimento verso il basso della media collettiva), vuoi perché la qualità stessa di quanto fornito si sta facendo via via più discutibile. Se è vero quanto ipotizzo, ai musei – oltre al ruolo di “cassaforte” del sapere umano cui ho fatto cenno più sopra – occorrerebbe assegnare un ulteriore compito: contribuire a educare le masse di visitatori/fruitori verso forme più elevate di conoscenza.

Network Museum – Ora la domanda relativa al tema dell’anno: i musei come possono influenzare il processo di comprensione dell’evoluzione collettiva e della ricostruzione sociale ed economica post Covid e, speriamo, post conflitto Russia – Ucraina?

Paolo Migliavacca – Dati alla mano (affluenza di visitatori negli ultimi mesi dello scorso anno), pare che in Italia il pubblico, nazionale e straniero, sia tornato ad affollare i musei. Se questo sia un fenomeno di lungo termine o soltanto un rimbalzo dovuto al recupero fisiologico dei numeri perduti per le costrizioni legate alla Pandemia, lo si scoprirà soltanto nei prossimi anni. Il vero timore mi pare legato al rischio che interi stati con un’offerta cultural-museale di enorme rilievo (un esempio su tutti: la Cina)  possano essere tagliati fuori a lungo dall’andamento negativo del Covid-19. Così come per noi occidentali sarebbe nefasto perdere gli stessi flussi in arrivo. L’incidenza del conflitto russo-ucraino mi pare invece più modesta quanto a numeri coinvolti, ma purtroppo destinata, sul lungo periodo, a lasciare barriere difficili da abbattere. L’Occidente ha perduto (si spera momentaneamente) gran parte del flusso turistico russo, in genere composto da persone colte e ricche, ma non si tratta comunque di grandi cifre (248mila gli arrivi in Italia nel 2021). Diverso invece il discorso per quanto riguarda gli eventuali effetti di lungo termine. Se il conflitto dovesse durare ancora a lungo, scavando un solco profondo tra la Russia e il resto d’Europa, sarebbe un dramma per le relazioni tra le due realtà culturali. Da oltre due secoli l’osmosi tra queste due parti dell’Europa è crescente e profonda e proprio essa potrebbe costituire, a conflitto finito, una molla potente per la ripresa di rapporti bilaterali nuovamente proficui. Un’Europa priva dell’accesso all’Ermitage e alla galleria Tretjakov o una Russia per la quale risultino irraggiungibili il Louvre, gli Uffizi, il Prado, il British Museum o la National Gallery, creerebbe un generale e deleterio impoverimento culturale, che pagherebbero assai caro le generazioni future dell’intero continente.

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Titolo: “Un’economia al servizio della cultura”
Sezione: “Musei ed economia”
Autore: Network Museum
Ospiti: Paolo Migliavacca
Codice: IIINET2301131200MAN/A1
Ultimo aggiornamento: 13/01/2023
Pubblicazione in rete: 5° edizione, 31/01/2023

Proprietà intellettuale: INFOGESTIONE s.a.s
Fonte contenuti: INFOGESTIONE – Network Museum
Fonte immagine: https://24hdrawinglab.blog/2014/09/28/maurits-cornelis-escher-al-chiostro-del-bramante/
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