Il crepuscolo degli dei

I musei come possono interagire con le emergenze planetarie?

di Gian Stefano Mandrino

Chi è della mia generazione non può certo dimenticare quel particolare rispetto, quella certa ammirazione, deferente addirittura, di quando a scuola o in gita, ci presentavano gesta, opere e resti appartenenti a epoche remote, agli antichi. Sull’onda del “già a quei tempi, invece adesso”, ripetuto a monito delle nuove generazioni, ci avevano insegnato a coltivare una benevola ammirazione verso chi ci ha preceduto, cercando, in ciò che era stato, guizzi di genialità e di altre virtù, con un sentimento quasi di sacralità verso quelli che non avevano a disposizioni le mirabilia, che abbiamo ricevuto in sorte, noi, privilegiati viventi di questa corrente epoca. Assistevamo, un poco emozionati come chi deve scaldarsi sapendo di dover entrare da lì a poco sul terreno di gioco per la partita della vita, ai cambi di quella staffetta generazional – epocale di una umanità olimpionica, votata alla celeberrima frase “Più veloce, più in alto, più forte – insieme” di Henri Didon, resa celebre da Pierre de Coubertin. Ci sembrava essere parte, per un sommo volere, di un destino ineluttabile, evocato ogni volta da una specie di retorica collettiva, che era trasversale a cortine più o meno ferrose, a dittature, democrazie o egemonie, per cui occorreva giungere “là, dove nessun uomo era mai arrivato”, anche a piccoli passi umani, che automaticamente diventavano grandi balzi umanitari. La destinazione, per la quale latitavano motivi e descrizioni, era certamente ignota ai più, a tutti. Era come se tutto fosse insito in noi o, come piace dire a molti in modo inesatto e ampolloso, come fosse parte del nostro DNA. La nostra specie da Laetoli in poi era “cosa in cammino” il resto non era poi così importante, istinti primari a parte: il nutrirsi, il vestirsi, il trovare riparo, lo spostarsi, così come molte altre nostre attività stava per essere sostituito dal verbo “consumare”, che, per ironia della sorte, significa, principalmente, corrodere, deteriorare, usurare.

A forza di “consumare”, mantra della seconda metà dello scorso secolo, stiamo correndo il rischio, che sta divenendo di anno in anno e di stagione in stagione una certezza, di essere la prima generazione, la prima epoca, a non poter essere considerata dai posteri con quella ammirazione devozionale, a cui facevo riferimento prima. Potremmo raggiungere, dopo tanto andare per non si sa dove, il triste primato di essere gli iniziatori, tra gli “antichi futuri”, del decadimento e dell’impoverimento planetario. I primi a minare seriamente, a più riprese e con una notevole varietà di modalità, la sopravvivenza della nostra specie e di buona parte delle altre presenti su questo pianeta. Per dirla tutta il processo è già iniziato, forse irreversibile. Pullulano i movimenti ecologisti dell’ultima ora, che mi ricordano tanto le folle di manzoniana memoria e di cui ho orrore più di me stesso. Sono, sovente, soggetti dalla vasta ignoranza, che, dopo aver indossato la toga dell’eco-giustizialismo, vogliono, di colpo, invertire la rotta del mondo, continuando, come gli scellerati loro precursori a non fermarsi per riflettere sui perché e sui fini a lungo termine. Si sono svegliati cinque minuti fa e pretendono di cambiare radicalmente tutto e tutti, confondendo sostenibilità e ecocompatibilità con mera espressione estetico-formale, desiderio di rivalsa, alternanza al potere e, sovente, interessi personali. Raccolgono firme per questo e quel problema “ecoqualcosa”, ma rifiutano categoricamente di non accompagnare la prole a scuola, magari sino sulla soglia dell’aula con il loro fiammante e costosissimo suv. Pensano che basti disegnare, come facevamo da bambini, quattro ruote e quattro porte su uno scatolone, per ottenere un’auto e risolvere il problema dei trasporti. Ancora una volta è l’ignoranza a imperversare, a farla da padrona, all’insegna del più assoluto relativismo: la mia idea, per forza perfetta e risolutrice, deve essere imposta. Dialogare e ragionare con gli altri non è necessario. Così il tempo passa e i tempi difficili arrivano, giusto “in tempo”, però, per assegnarci il triste primato di “rovinapianeti”, dopo un milione e mezzo di anni trascorsi dalla nostra specie, in modo più o meno decoroso, su questo puntino blu alla periferia della Via Lattea.

E i musei? Cosa avrebbero a che spartire con questo problema? Che cosa c’entra il Donatello con la crisi climatica, Michelangelo con quella energetica o con l’ignoranza? Quale potrebbe essere il loro ruolo? Il sistema museale dovrebbe e potrebbe cogliere l’occasione, anzi la vitale e ghiotta opportunità, per imparare a diventare più partner e meno “prima donna”, per concentrarsi meno sull’attrarre visitatori e di più sull’imparare a incontrare donne e uomini, per offrire loro occasioni non solo di “indottrinamento” nozionistico dall’alto impartito, ma, soprattutto, di condivisione e di opportunità di riflessione su problemi e destini. Il fatto che si possa erroneamente pensare che la Cappella Sistina non possa avere nulla a che spartire con l’energia e la crisi derivante dalla sua scarsità è già un errore di base, assai grave, che potrebbe minare il senso ultimo del fenomeno culturale e museale.

Chiediamoci dove eravamo, noi che ci interessiamo di musei, negli ultimi decenni (soprattutto i colleghi dei sistemi espositivi scientifici). La dimensione della crescita cognitiva, dell’aggiornamento, della condivisione del sapere non può terminare con l’università o con quelle poche occasioni fornite da alcuni ambiti professionali. La formazione continua, la possibilità di sensibilizzare, dialogare e condividere, di crescere, di cambiare e di riflettere su destini personali e collettivi non potrebbe anche passare dai sistemi museali, che dovrebbero essere campioni in questo?

Pensate solo a quanto un museo d’arte potrebbe compiere, cercando i motivi di una armonia estetico-rappresentativa nelle problematiche del coesistere con la natura, oppure un museo diocesano quanto potrebbe ispirare circa l’emergenza economica, passando per quelli tecnici, scientifici e aziendali, quanto potrebbero esprimere, per aiutare a capire il senso della sostenibilità. Tutti, però, potrebbero essere di grande utilità nel cercare di apportare sviluppo nella tecnologia della condivisione, del confronto, della crescita individuale continua. Non so se un giorno saremmo giudicati dai posteri come scellerati, per aver sporcato casa o per non essere stati in grado di far capire che era meglio non farlo. Come saremo giudicati stolti quando vedranno le nostre pubblicità, tese solo a suscitare vittorie nelle guerre mercantili, predicando bellezza, gioia, salute come falsi idoli, a cui nessuno può concretamente tendere, evitando di parlare di morte, di male, di dolore (a patto che non sia in funzione del risultato pubblicitario dello spot in agguato) e di tutto ciò che potrebbe portarci a riflettere sul nostro transito esistenziale, mentre le nostre produzioni cinematografico-televisive sono colme di violenza, di nefandezze umane e della morte stessa. Quando cominceremo a essere un poco più maturi e saggi? Chi, come i musei tra tanti, potrebbe aiutare in questo processo di consapevolezza? Forse dovremmo aspettare qualcuno da un altro sistema solare o un aiuto dall’evoluzione, per diventare ed essere veramente degni dell’appellativo “sapiens”.

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Titolo: “Il crepuscolo degli dei”
Sezione: “La copertina”
Autore:  Gian Stefano Mandrino
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Codice: IIINET2306081500MAN/A3
Ultimo aggiornamento: 16/06/2023
Pubblicazione in rete: 5a edizione, 16/06/2023
Proprietà intellettuale: INFOGESTIONE s.a.s

Fonte contenuti: Network Museum
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